Si diceva, dentro di noi
di Marco Boschini – Si diceva che le città dovevano essere a misura di bambino. E si mentiva. Li si guardava negli occhi con l’ineluttabile consapevolezza di contribuire a un colossale inganno.
Si diceva, guardandole nell’anima, che per essere sicure dovevano stare in casa, tra le mura domestiche. E si mentiva. Le si mandava a morire per mano di ex-mariti ed ex-fidanzati ed ex-compagni ed ex-uomini con la certezza che è solo della rassegnazione e della complicità.
Si diceva che il nostro orizzonte doveva essere quella carta costituzionale scritta con le mani e con il sangue, la speranza e la forza. Che lì c’era già dentro tutto, in fatto di diritti, doveri, principi e valori. E mentre lo dicevano usavano scarponi pieni di fango e rancore, per calpestarla ogni giorno.
Si diceva che il paesaggio e la storia ci avrebbero salvati, a noi italiani. Che avremmo investito nel turismo di qualità e nella bellezza. Che il passato sarebbe stato il nostro futuro. E intanto distribuivamo cemento, miasmi e distruzione per le strade d’Italia.
Si diceva che questo sarebbe stato un posto migliore in cui vivere tutti, e che avremmo fatto del nostro meglio per esportare cultura di pace e integrazione. E si mentiva. Nel rinchiuderci tra telecamere e sospetti, filo spinato e paure. Recintando frontiere e mandando a morire donne, uomini e bambini. Esattamente come noi. Anzi più poveri, e più soli, e più disperati, e meno liberi, e.
Si diceva che il lavoro sarebbe stata un’occasione e uno strumento di crescita e di benessere, una creatura da tutelare e rispettare. E si mentiva. Spudoratamente. Sottraendo ad ogni valzer di riforma un tanto di tutele e un tanto di garanzie, nascoste dietro l’inganno di una parola. Flessibilità.
Si diceva di tutto, e tutto serviva per distrarre, ammaliare, tra fischioni e trucchi e colori scintillanti di un impero al suo crepuscolo. Offuscato dall’odio e da un dedalo di invidie reciproche e reciproci dispetti.
Mentire era diventato lo sport nazionale, che tutti contribuivamo a praticare. Ma era la menzogna a noi stessi, quella più indigesta. Ci serviva per reiterare l’assurdo, accettare l’inaccettabile, sopportare l’indicibile. I nostri occhi avevano smesso di riconoscere la bellezza, di coltivarla. Di più, di pretenderla. Ci eravamo accontentati in un gioco al ribasso che istante dopo istante si era trasformato in un perenne sprofondare. E le nostre emozioni, speranze, desideri, ristagnavano nel fango in cui galleggiavamo stanchi. Di più, vinti.
Si diceva che forse un giorno non molto lontano le cose sarebbero cambiate. E forse era vero, per davvero. Ma avremmo dovuto assistere a uno scatto di orgoglio e di coraggio, insieme. Avremmo potuto riuscirci reimparando a vedere e a respirare, a conoscere e a scegliere. Senza categorie, luoghi comuni, pregiudizi, disincanto. Andando a bussare alla porta della curiosità e della fantasia, insieme.
Ricominciando a pronunciare le parole e gli atti dell’accoglienza e del buonvivere. Delle comunità, anche. Le nostre, che sono poi quelle in cui tutti avremmo vissuto. Nascendo una seconda volta.
Prendendo coscienza del fatto che nessuno lo avrebbe fatto al posto nostro, e che la differenza sarebbe stata proprio lì. Dentro di noi.